Le storielle delle tre Città,
inducono ad alcune considerazioni. Si prendano ad esempio quelle camplesi.
Nel caso della cavalletta posatasi sulla spalla di una delle guardie, l'aspetto
ridicolo del racconto non è rappresentato dal fatto che qualcuno
spari ad un uomo per colpire un insetto, ma dall'affermazione appagata
della guardia: "uno dei nostri ed uno dei loro". Un finale umoristico,
che muove al riso, come nel racconto dell'asino "condannato" ad essere
gonfiato per insufflazione dal posteriore, con il Sindaco che ordina di
girare "la cannella" perchè lui, per distinzione e dignità
di carica non avrebbe mai messo la bocca ove l'avevano posta gli altri.
Ed altrettanto umoristico quello dell'asino tirato per il col lo a mangiare
l'erba sulla torre: "...è contento, gli piace". E' una particolarità
che distingue le storie burlesche di Campli da quelle, pur simili, di Schilda
o Cuneo ed evidenzia quel senso dell'umorismo di cui i camplesi sono dotati.
A parte questa annotazione,
tutte le storielle, hanno in comune animali sacrificati a quella logica
consuetudinaria che considerava le bestie condannabili al pari degli uomini.
Trattasi di inserimenti, nella ideazione burlesca, di antiche costumanze
giuridiche medievali che datano, con quasi assoluta certezza, il divulgarsi
delle storielle; un periodo che aveva vissuto non solo i processi inquisitori
a danno di uomini accusati di eresia, ma anche quelli dei processi, realmente
istruiti e dibattuti, contro insetti nocivi e animali devastatori.
La cavalletta "giustiziata"
nella finzione burlesca di Campli, gli asini "impiccati" nella finzione
burlesca di Cuneo o di Campli, ovvero la mucca in quella di Schilda, rappresentano
un inserimento inconscio di antiche "processure" nell'immmaginario fantastico
popolare. Un richiamo di "esecuzioni" e di pubblici processi, forse anche
vissuti, contro animali ritenuti capaci di delinquere al pari degli uomini
secondo conconcezioni giuridiche di quei tempi che voleva punibile tanto
l'uomo quanto la bestia. Ruggero Bonghi, in una lettera del 1892 in prefazione
al libro Bestie delinquenti di Carlo d'Addosio (42),
annotava fra l'altro che, quelle procedure penali e civili che apparivano
così bizzarre e "degne di riso" servivano, forse, al medioevo per
riderci sopra per quella forma di ironia che esso "introduceva in tutte
le istituzioni, cerimonie serie e burlesche ....che rendevan la vita....assai
meno tetra ed uggiosa".
Di tal guisa "le cavallette"
devastatrici. che sciamavano in alcuni territori portando danni e carestia,
venivano combattute con...mezzi "istituzionali". Prima si ricorreva alla
Chiesa ed i Vescovi, sollecitati dai fedeli, lanciavano contro gli intrusi
la maledizione divina e quindi pronunciavano la scomunica con "brevi" lette
ad alta voce nelle località infestate. Poi si ricorreva al processo
civile con "ordinanze di sfratto" emesse dai Sindaci e fatte notificare
"oralmente" da pubblici banditori e quindi per iscritto, da messi giudiziari,
mediante collocazione del documento su qualche frasca dei campi invasi
dai nocivi insetti. E perché non immaginare, per riderci sopra,
una condanna ancor più esemplare quale poteva essere quell'archibugiata
fatta sparare, dalla fantasia umoristica camplese, alla cavalletta, specie
emblematica di ricorrenti carestie? Pure l'asino o la mucca impiccati,
o l'asino condannato ad essere "insufflato" hanno analoghi riscontri processuali,
poichè "...alle barbare torture dei processi umani, il medio evo
volle accoppiare il ridicolo di quelli animaleschi" (43).
Anche l'Abruzzo, come del
resto gli altri paesi, non fu immune da queste usanze. A Barrea, Pacentro,
Alfedena, S.Valentino, l'Aquila sono ricordate in bolle e documenti le
scomuniche pronunciate contro le cavallette e i bruchi. I procedimenti
avevano tutti i crismi della legalità, ivi compreso quello del rispetto
dei termini di preavviso "....affinché‚ i bruchi non avessero a
rivendicare ragione alcuna di non conoscenza" (44).
Soprattutto nei processi penali, nulla veniva tralasciato per assicurare
il diritto alla difesa dell'animale che, ove accusato di reato penalmente
perseguibile, veniva imprigionato e condotto al pubblico processo. Qui
un giudice curava l'accusa ed un avvocato, nominato d'ufficio, si incaricava
della difesa.
Conclamata la colpevolezza,
la condanna veniva eseguita con buona pace dei moralisti: sicché
"...gli asini, i porci, le capre, i galli stregoni, sacrileghi, prevaricatori,
non andarono esenti dalla scure e dal capestro " (45).
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