Il termine 'leninismo' viene
qui usato per intendere l'organizzazione del partito leninista, e non nel
senso di programma politico di attuazione delle concezioni marxiste. Lenin
stesso riferisce questa "strana espressione", coniata dal compagno Martov,
in una nota di 'Un passo avanti e due indietro' .(21)
Malgrado che l'organizzazione del partito leninista avesse come obbiettivo
primario la vittoria del proletariato mondiale, il tipo di organizzazione
ha svolto un ruolo decisivo nel determinarne l'azione politica. L'ideologia
marxista è stata identificata, anche per l'effetto del tipo di organizzazione,
col termine marxismo-leninismo nell'esperimento di più larga scala
condotto nei paesi del blocco sovietico. Tuttavia, indipendentemente dagli
scopi che l'organizzazione leninista si prefiggeva, la maggior parte delle
sue caratteristiche ha avuto largo influsso della struttura di molti partiti
politici anche assai lontani dalle concezioni marxiste.
Il leninismo è una
concezione elitaria dell'azione politica. Questo fatto è in contrasto
colla concezione marxista di uguaglianza di tutti gli uomini, quella concezione
che doveva ispirare la critica di sociologi dell'élite come Wilfredo
Pareto. Che il leninismo sia una concezione elitaria è di solito
mascherato dai fini dell'azione politica, che sono quelli del benessere
delle masse popolari e quindi del loro coinvolgimento nell'azione politica.
Malgrado che sia considerato proprio dell'azione politica l'immedesimarsi
nelle masse, comprenderne i bisogni e farli propri, il problema si è
posto immediatamente per il fatto che il benessere delle masse è
qualcosa che viene comunque deciso dalla élite leninista, e non
certo dalle masse. Le masse sono ritenute, nei fatti, incapaci di farlo
da sole, senza una guida. La guida è appunto il partito leninista.
E' implicito quindi nella
prassi leninista un giudizio degli esseri umani: esistono degli esseri
umani (una minoranza) capaci di rendersi conto delle ingiustizie sociali,
delle aspirazioni degli oppressi, e quindi di progettare una giustizia
sociale, una liberazione dall'oppressione; per converso esistono degli
altri esseri umani (la maggioranza) che, pur soffrendo in prima persona
delle ingiustizie e della oppressione, non sono in grado neanche di progettare
la propria liberazione. Esiste poi naturalmente un'altra minoranza che
è quella degli sfruttatori e degli oppressori, ma questo ha ben
poco a che fare con il leninismo come prassi politica, pur essendo il nemico
da battere. E' ovviamente la minoranza leninista che pronuncia questo giudizio:
tale prerogativa di giudizio ha le caratteristiche di un assioma:
"dato un certo gruppo di persone, solo una minoranza è in grado,
spontaneamente o dopo stimolazione, di rendersi conto di cosa succede realmente
e di agire di conseguenza".
Tale assioma è la base
di ogni concezione elitaria.
La concezione dell'élite
è assiomatica probabilmente perché ricerca una evidenza assoluta
e indiscutibile, vera in se, non necessitante una dimostrazione, né
su basi logiche né su basi sperimentali. Essa appare coerente con
se stessa, ha cioè una logica interna. L'élite stessa decide
di essere una élite.
Su questa logica si determina
tuttavia una gerarchizzazione piramidale: all'interno del ristretto gruppo
dell'élite di solito il grado di comprensione dei fenomeni politici
non viene ritenuto uniforme e uguale per tutti, al contrario è minimo
alla base del gruppo elitario e si accentua per gradi gerarchici più
elevati fino al vertice che fatalmente, presto o tardi, finisce coll'essere
costituito da una persona sola.
La nobiltà dei fini
dell'azione politica giustifica la rinuncia a ogni ipotesi egualitaria
per quanto riguarda la questione del chi decide che mezzi usare. Il leninista
è un benefattore elitario. Siccome i fini dell'azione politica sono
quelli, in ultima analisi, della promozione umana, appare chiaro come il
leninista abbia già deciso che chi promuove la condizione umana
è già un promosso in sé. Un promosso che altruisticamente
si sacrifica per promuovere gli altri, le masse. 'The logic lag' è
nella necessaria autocertificazione di individuo promosso, superiore, e
quant'altro. In altre parole il leninista che vuol fare del bene per nobiltà
d'animo, sembra trovare inconcepibile chiedere ai beneficanti che cosa
loro reputino che sia il bene, e ancor più riterrà inconcepibile
che siano i beneficanti a esprimersi sui mezzi da impiegare. Il benefattore
elitario riterrebbe una propria insufficienza o incapacità il non
sapere indicare tali mezzi. (22)
E' pur vero che il rivoluzionario
di professione deve immedesimarsi nei bisogni e nei desideri delle masse,
muoversi in esse come un pesce nell'acqua; ma questa stessa necessità
di immedesimarsi esprime la convinzione dell'incapacità delle masse
di esprimere i propri bisogni, i propri desideri. Sembra che nella prassi
leninista le masse abbiano bisogno di un leninista che si immedesimi nei
loro bisogni, affinché tali bisogni siano espressi, così
come una reazione biochimica ha bisogno di un enzima per potersi svolgere.
Niente enzima, niente reazione. Niente rivoluzionari, niente rivoluzione.
Se si prende per buono il
ragionamento seguito, apparirà più facile comprendere la
dinamica interna al partito leninista e le sue degenerazioni. Il concetto
di rivoluzionari di professione, e poi di professionisti della politica,
è l'espressione della necessità di darsi anima e corpo alla
causa; esso è coerente e consustanziale alla concezione elitaria
della dirigenza leninista e della stessa appartenenza al partito leninista.
Lo spirito di sacrificio (il potersi sacrificare per la causa) l la dedizione
assoluta alla causa, sono cose che solo una minoranza è in grado
di accettare. Questa minoranza è obbligata a definire i mezzi, e
ad imporli.
La giustezza dell'azione politica
trova un riscontro oggettivo nel fatto che l'analisi politica soggettiva
è resa collettiva dalla discussione all'interno del ristretto gruppo
dirigente. O se si preferisce è il ragionamento collettivo che rende
l'analisi oggettiva; si tratta del vetusto e miserabile principio che se
sono in molti a pensare la stessa cosa allora quella cosa è vera.
Konrad Lorenz dice sardonicamente che, in generale, il fatto che più
persone concordino con una teoria non è un qualche cosa che svilisca
la teoria o che le tolga forza. Il che può anche essere vero, se
solo la teoria è stata discussa da tutti, e tutti siano consapevoli
che rimane pur sempre solo una teoria. Se invece la teoria (l'analisi politica)
è stata elaborata sia pure collettivamente all'interno di un ristretto
gruppo di persone (la minoranza di rivoluzionari di professione, la direzione
strategica, il gruppo dirigente del partito), tale elaborazione non può
che essere, per definizione, di parte, faziosa. E' infatti la selezione
preesistente alla formazione dell'élite dirigente che ne garantisce
la consistenza di
parte e la faziosità.
La mancanza di una discussione razionale su possibili teorie alternative
provoca di solito un distacco più o meno completo dalla realtà,
una specie di segregazione intellettuale che finisce col dare alla teoria
la forza di un credo fanatico.
Non è stato certamente
il leninismo a inventare la concezione elitaria, ne si può fargli
una colpa di averla utilizzata, e comunque non è questo l'oggetto
della discussione. Quello che interessa rilevare è che, come il
leninismo ha utilizzato la concezione elitaria per i suoi scopi, così
molte forze politiche hanno usato il modello leninista per la loro organizzazione
e la loro azione. Anche laddove i fini erano meno rivoluzionari e si riducevano
per esempio alla costruzione di un apparato capace di vincere delle elezioni
democratiche, il modello leninista ha dato prova di una certa efficienza.
Come diceva Tacito, le cose sono molto più facili da comandare quando
chi comanda è uno solo. La struttura piramidale del modello leninista
ha comprovato la propria efficacia quando messa a confronto con strutture
politiche non piramidali (p. es. un partito avversario spaccato in correnti
autonome).
Quali sono le caratteristiche
principali di tale modello? Elenchiamone una serie, probabilmente incompleta:
1 professionismo dell'impegno
politico
2 organizzazione dall'alto
verso il basso e rispetto della gerarchia in nome della causa (centralismo)
3 ricambio del gruppo dirigente
per cooptazione 4 rigidità strategica unita a duttilità tattica
(il fine giustifica i mezzi)
5 prevalenza assoluta degli
interessi collettivi sugli interessi individuali (non importa se un individuo
muore purché la rivoluzione trionfi)
6 tanto più il membro
del partito è in basso nella piramide gerarchica, tanto più
è sacrificabile. Tanto più è in alto, tanto meno lo
è. Il capo dei capi si identifica poi col partito stesso, è
il totem della tribù, e per lui il punto 5 non si applica.
Vorrei fare alcune considerazioni
sul punto 5 perché, insieme a tanti altri, sono giunto anni fa alla
conclusione esattamente contraria: che crepi la rivoluzione se un solo
individuo deve essere sacrificato perché essa trionfi. Dicono che
un rivoluzionario cubano, caduto in disgrazia della élite castrista
e condannato a morte, sia stato apostrofato in questo modo dal capo del
plotone di esecuzione: "Compagno, non sono io che ti uccido, è la
rivoluzione". Al che il condannato ha risposto: "Compagno, vai a cagare".
Sta di fatto che la prevalenza
assoluta degli interessi collettivi è stata la giustificazione etica
per opprimere e sopprimere i dissenzienti e l'intera collettività.
Ora il problema dell'equilibrio tra interessi individuali e interessi collettivi
è quantomeno un problema che rimane aperto in una società
democratica, e che probabilmente è bene che rimanga sempre aperto.
L'esperienza storica passata e recente dimostra che la supposta preminenza
degli interessi collettivi ha prodotto in prevalenza orrori e misfatti.
Si pone ora la questione se
il leninismo sia compatibile con dei fini ragionevoli, non fanatici, non
settari, non totalitari. Ciò equivale a chiedersi se il leninismo,
nel senso che ha nel termine marxismo-leninismo, e quindi anche lo stalinismo,
sia, 0 possa essere, una linea politica o sia invece semplicemente un metodo
di lotta politica per degli obbiettivi (la linea politica) pregiudizialmente
già decisi e indiscutibili. Se fosse una linea politica si potrebbe
comodamente ritenere che tale linea sia finita nella pattumiera della storia
con i recenti avvenimenti. Se invece, come io ritengo, fosse semplicemente
un metodo di lotta politica, allora la questione sarebbe ancora di attualità.
E' interessante osservare
che la evoluzione democratica dei partiti comunisti, laddove c'è
stata, ha coinciso almeno inizialmente coll'abbandono del leninismo nel
binomio 'marxismo-leninismo'. E' stato accantonato il principio del centralismo
democratico e la prassi della cooptazione è stata modificata coll'elezione
a scrutinio segreto e il progressivo abbandono delle liste bloccate. Sono
stati in altre parole proprio i tentativi di democratizzare la vita interna
dei partiti comunisti a dimostrare che era possibile quantomeno pensare
di realizzare gli obiettivi del comunismo senza la metodologia leninista.
Sta di fatto comunque che
in Francia e in Italia, e poi in Spagna e Portogallo e Grecia, l'organizzazione
dei partiti politici, indipendentemente dalle loro caratteristiche ideologiche,
è stata fatta sul modello leninista. Basta sostituire nei punti
sopra elencati alcuni termini, e si vedrà come la struttura leninista
è caratteristica dei partiti di quasi tutta l'europa continentale:
1 impegno civile, impegno
sociale, militanza attiva
2 è compito degli uomini
politici elaborare le idee e spiegarle al popolo, il popolo le approverà
o disapproverà; gli uomini politici tuttavia hanno l'obbligo di
conformarsi, in parlamento e altrove, alla disciplina di partito
3 il gruppo dirigente è
di fatto una oligarchia con cariche pressoché vitalizie
4 la strategia essendo di
mantenere il potere ad ogni costo, ogni costo può essere pagato
e fatto pagare
5 il partito, e la politica
in genere, si occupa prevalentemente della società nel suo insieme,
e gli individui sono considerati solo in quanto componenti della società
6 i funzionari periferici
contano assai meno dei funzionari centrali, sono molto più spendibili;
il leader è un promotore, non un semplice esecutore.
Le caratteristiche del leninismo
in una situazione di coesistenza di più partiti tutti organizzati
secondo il modello leninista, sono identificabili con ciò che in
Italia si è inteso col termine di 'partitocrazia', nel senso
che l'organizzazione leninista dei partiti appare essere stata una condizione
necessaria perché si sia potuto sviluppare un regime partitocratico.
Infatti:
se l'impegno politico fosse
più generalizzato e meno professionale e continuativo, come è
il caso in Inghilterra e negli Stati Uniti, se l'elaborazione della linea
politica potesse essere effettuata dalla base o anche da un rapporto diretto
elettori-rappresentanti, prescindendo dall'idea del 'partito guida' se
il gruppo dirigente venisse regolarmente controllato e cambiato se necessario,
impedendogli di divenire una oligarchia permanente e unica garante della
ideologia se la organizzazione interna di un partito realizzasse, all'interno
del partito, le sue dichiarate ambizioni di democratizzazione della società
( se cioè l'ultimo degli iscritti contasse quanto il segretario
del partito, p.e.. nella scelta dei candidati alle elezioni), se insomma
venisse abbandonata la prassi leninista, allora la partitocrazia si dissolverebbe
o quantomeno verrebbe tremendamente ridimensionata. Ma come è chiaro,
la serie dei se sopra elencati mette in dubbio l'esistenza stessa dei partiti,
la loro essenza, ed è pertanto estremamente improbabile che i partiti
rinuncino ad essere quello che sono.
L'antitesi tra organizzazione
dal vertice alla base versus l'organizzazione dalla base al vertice appare
il cuore del problema, come correttamente indicato dal compagno Lenin.
(23)
Se l'ipotesi che la partitocrazia si regge sulla prassi leninista è
corretta, allora il limitare la critica alla partitocrazia al metodo proporzionale
di elezione dei rappresentanti del popolo, e quindi il combattere la partitocrazia
solo con una modifica nel senso maggioritario delle elezioni, lascerebbe
intatta la questione di base, cioè la struttura leninista dei partiti
e il sistema cooptativo di formazione della loro classe dirigente. Il sistema
maggioritario sarebbe senz'altro più efficiente e meno corrotto,
la democrazia sarebbe più efficiente e meno corrotta ma sempre parziale
e incompleta. In questo senso i partiti politici, così come sono
concepiti nella maggioranza dei paesi dell'Europa continentale, sono più
strumenti di impedimento della democrazia che strumenti di realizzazione
della stessa.
Sono ancora in molti a pensare
che debbano governare i migliori, e che la vita politica serva a selezionare
questi migliori. Queste cose ci sono state insegnate a scuola, e ciò
che si è modificato è il numero degli alunni. Voglio dire
che si è passati da una scuola di élite a una scuola di massa
insegnando le stesse cose, e tra le cose insegnate ossessivamente è
rimasta l'idea che la scuola formi la futura classe dirigente. Mano a mano
che a scuola ci vanno tutti questo insegnamento diventa sempre più
incongruo anche se paradossalmente si avvicina come non mai alla verità.
Rimane quindi sostanzialmente l'idea che la democrazia rappresentativa
costituisca una contraddizione in se, che la democrazia non esca dalla
problematica teologica o biologica della predestinazione operata da imperscrutabili
disegni divini o dai propri geni. Credo sia per risolvere questa contraddizione
che Lenin elaborò la prassi della cosiddetta 'democrazia diretta'
, anche sulla base della esperienza storica della comune di Parigi. Così
a una contraddizione si sostituì una finzione. Una vera democrazia
diretta è infatti incompatibile colla concezione Leninista del partito
politico e della sua funzione.
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