Parlando di metodi elettorali
il sorteggio va ricordato come una forma di elezione a cariche sociali,
di carattere religioso e amministrativo, della comunità primitiva,
sia essa clan, tribù o nazione. Il sorteggio presuppone che la società
in cui è usato abbia due caratteristiche:
1) sia assolutamente egualitaria.
Tutti i membri sono uguali davanti agli dei e davanti alla collettività.
2) tutti i membri siano assolutamente
d'accordo su questioni politiche e sociali fondamentali per la vita della
collettività, ovvero che la società sia di tipo collettivistico
e totalitario.
Questioni come il significato
e il destino della comunità, la sua risposta a problemi come la
fame, le avversità ambientali, l'aggressione, possono dar luogo
a divergenze anche feroci; l'accordo tra tutti i membri può anche
essere inteso come l'accettare. far proprie, le decisioni della maggioranza
dopo una opportuna discussione. Insomma una comunità primitiva i
cui membri sono tutti fratelli e che agisce come se fosse una cosa sola.
Il sorteggio era per esempio
usato per eleggere il Sommo Sacerdote a Gerusalemme, ed esistono testimonianze
dell'uso del sorteggio per eleggere i capi presso una serie di tribù
primitive. Il termine 'sorteggio' ha la stessa etimologia di 'sortilegio':
si trattava, attraverso un sortilegio, di stabilire chi gli spiriti, più
tardi gli dei, poi Dio, volessero far governare la comunità. Presupposto
all'utilizzo del sortilegio era una concezione panteista della vita, con
un Dio che, attraverso la sorte, faceva conoscere la sua volontà.
Quindi il sorteggio come metodo di elezione dei capi implicava l'accettazione
della sorte, del fato, come espressione della volontà di Dio.
Caduta in discredito la concezione
della vita dominata dagli spiriti, la concezione della religione come pratica
del rapporto cogli spiriti, rimane valido, se non altro come programma
politico, il concetto di uguaglianza di tutti gli uomini, davanti alla
legge e altrove. In questo programma egualitario il sorteggio alle cariche
pubbliche può essere auspicato come metodo sostanzialmente democratico
di elezione, laddove la decisione politica su che cosa fare sia già
stata presa (p. es. per la nomina di amministratori di enti pubblici, o
l'elezione dei giurati, o il controllo dei seggi elettorali), o laddove
sia praticabile una
forma di democrazia diretta.
Potremmo infatti definire
le caratteristiche attuali del sorteggio come un metodo di elezione a cariche
pubbliche che si effettua tra individui assolutamente uguali, quando è
già stato definito nei dettagli il programma da svolgere. Non ha
importanza chi di questi individui governi, anzi la comunità potrebbe
richiedere che i propri membri siano tutti egualmente disponibili a prestarsi
come servizio alla politica. La politica come servizio e l'uguaglianza
di tutti i membri della comunità sono concetti non più rivoluzionari,
ragionevoli, e probabilmente utili in determinate circostanze.
Nelle democrazie moderne la
democrazia diretta è stata largamente abbandonata in favore di varie
forme di democrazia rappresentativa, si è posto il problema di come
eleggere, di come scegliere i rappresentanti. Nell'elezione dei rappresentanti
il sorteggio non sembra adatto ne praticabile. Tuttavia assemblee di rappresentanti
potrebbero in linea teorica ricorrere al sorteggio per nominare i membri
dell'esecutivo laddove ci fosse sostanziale unanimità. Alternativamente
la maggioranza potrebbe eleggere per sorteggio i membri dell'esecutivo,
confermando attraverso l'uso frequente del referendum consultivo la permanenza
di una volontà comune o comunque maggioritaria nel contesto di specifici
problemi, non definiti al momento delle elezioni dei rappresentanti.
La democrazia referendaria
potrebbe essere una forma di compromesso tra democrazia diretta e democrazia
rappresentativa. Si dirà che l'uso frequente del referendum svilisce
la nobiltà della politica rappresentativa: ma se la politica non
può essere ridotta a pura amministrazione degli affari pubblici
e alla tecnica migliore di come eleggere gli amministratori, tanto meno
può essere lasciata interamente nelle mani degli 'eletti' , senza
nessun controllo.
La proposta di utilizzare
il sorteggio per l'elezione, per esempio, dei candidati al parlamento,
farà gridare allo scandalo chi ritiene invece che debbano essere
i partiti politici a indicare la rosa dei candidati alle elezioni. Ma le
elezioni del parlamento, o di qualunque altra istituzione, sono concepibili
come un controllo dell'attività svolta, e i partiti politici dovrebbero
occuparsi di discutere di programmi più che preoccuparsi di controllare
chi dovrà realizzarli. Uno degli errori della partitocrazia è
consistito nel fatto che i partiti stessi controllavano l'esecuzione dei
loro programmi, controllando strettamente il loro gruppo parlamentare sottraendo
agli elettori tale funzione. Parrebbe meglio sostenere che non importa
come vengono scelti i capi, o i rappresentanti, purché possano sempre
essere cambiati se non danno buona prova di se. Pertanto se fosse possibile
sostituire prontamente chi ha agito male, se lo si potesse allontanare
dal parlamento o da qualunque altra carica attraverso un voto di sfiducia,
anche il sorteggio andrebbe bene come metodo elettorale: è in ultima
analisi una libera scelta dei cittadini scegliere i loro rappresentanti
e il modo con cui tale scelta deve essere fatta.
La funzione dei partiti sarebbe
quella di rappresentare le parti in cui la società si divide su
questioni di interesse generale, di elaborare soluzioni ai problemi che
si presentano alle varie componenti della società, insomma di sopperire
alla impossibilità pratica di una democrazia diretta. La società
moderna, aperta e democratica, all'opposto della società primitiva,
è caratterizzata dalla varietà delle posizioni, dei comportamenti,
delle filosofie esistenziali. Il problema di raggiungere delle decisioni
è quasi sempre, anche se non drammaticamente, un ridiscutere se
i dissenzienti vogliono continuare a far parte della comunità oppure
se il dissidio è tale da far preferire il divorzio. In questo senso
le decisioni politiche sono sempre nobili. L'uguaglianza di tutti gli uomini
davanti alla legge e altrove, per esempio, è un programma politico
tuttora importantissimo, per il quale è necessario un impegno attuale
e storico continuo e ininterrotto, e che è continuamente rimesso
in discussione nei suoi effetti pratici (si pensi alla aberrante interpretazione
di questo principio fatta dai sindacati dei lavoratori con la politica
del salario uguale per tutti). Sono queste discussioni che devono godere
di libertà incontrollata, e non certo l'attività di amministrazione
del denaro pubblico.
Tuttavia il programma politico
dell'uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge e altrove si scontra,
teoricamente e praticamente, colla tesi che gli uomini politici siano dotati,
o debbano essere dotati, di una competenza specifica per governare. Comunemente
si attribuisce a Platone la tesi che debbano essere i 'migliori' a governare,
col noto esempio che nessuno penserebbe di andare dal capitano di una nave
e di spiegargli come governare la navigazione. La risposta a questa apparentemente
logica posizione è che sono comunque i passeggeri a decidere dove
la nave va, e non certo il capitano. E soprattutto in duemila e più
anni di storia la definizione di 'migliori' sfugge ancora a una precisa
esplicazione. Le costituzioni delle società aperte e democratiche
specificano che tutti i cittadini sono eleggibili a qualunque carica del
governo, e nessuna indica criteri di scelta dei 'migliori'. Sembra insomma
che tali criteri non esistano all'infuori della libera scelta dei cittadini,
cioè all'infuori di elezioni libere. Pur tuttavia filosofi e politologi
spesso sottintendono che gli uomini politici, per il solo fatto di essere
tali, rappresentano di fatto 'i migliori' e che su questa base acquisiscano
il diritto di governare. Questo è un pervertimento della logica
democratica che, volenti o nolenti, pone tutto il potere nelle mani del
popolo, degli elettori e delle loro libere scelte. Il fatto è che
la formulazione di Platone è stata la base di tutti gli assolutismi
ed è assolutamente inconciliabile con un sistema democratico.
Il problema è di definire
il rapporto tra partiti politici, politica, e istituzioni democratiche,
tra eletti e elettori. Non partiamo da zero e sappiamo che l'acquisizione
culturale e sociale della divisione dei poteri -esecutivo, legislativo
e giudiziario- è una grossa conquista della civiltà. Sappiamo
poi che la realizzazione della società democratica richiede un controllo
reciproco tra i tre poteri citati. Il problema del controllo è essenziale
alla vita democratica, ne è la caratteristica fondamentale. Ciò
che non sembra essere sufficientemente apprezzato è che le elezioni
politiche sono essenzialmente una forma di controllo ancor prima che una
scelta su chi deve governare. Conseguentemente tutte le discussioni sui
metodi elettorali dovrebbero preoccuparsi di rispondere alla domanda 'come
controllare gli eletti' più che alla domanda' chi deve essere eletto'.
(Popper)
In altre parole il problema
non è di come scegliere i 'migliori' , ma di come eliminare i peggiori.
Per chiarire questo punto
immaginiamo, in linea puramente teorica, di dare inizio a una nuova repubblica
all'anno zero, e di porci immediatamente il problema del controllo. Sorge
spontanea la domanda: controllo di che, visto che, nella nostra immagine
siamo all'anno zero? Sempre nella nostra immaginazione supponiamo di estrarre
a sorte fra tutti i cittadini i membri del parlamento. Cosa faranno costoro?
Qualunque cosa facciano, essi verranno, dopo un certo periodo di tempo
sottoposti a controllo secondo modalità da definire: chi ha operato
male verrà dimissionato, chi ha operato bene verrà confermato.
Il fatto è che il problema
del controllo democratico viene di solito occultato dall'esigenza di stabilire
come si realizza la volontà della maggioranza, cioè di stabilire
quale dei vari programmi proposti dai partiti politici riscuota la maggioranza
dei consensi e debba quindi essere realizzato.
Nell'epoca in cui il termine
'partito politico' è sinonimo di comunità ideologica, cioè
di comunità di persone che hanno abbracciato tutte la stessa visione
del mondo e della vita, il controllo democratico si limiterebbe a un conteggio
numerico degli aderenti alle varie sette politiche. La più numerosa
-qualunque cosa si intenda con 'la più numerosa'- avrebbe il diritto
di governare. In questa ipotesi la nobiltà della politica si ridurrebbe
a una conta aritmetica, soprattutto a causa della impermeabilità
delle ideologie a critiche e modifiche. Una forza politica non ideologica
potrebbe operare in tale sistema perché le ideologie sono incapaci,
per la loro natura pregiudiziale, di affrontare le novità e i cambiamenti,
ma il sistema rimarrebbe sostanzialmente bloccato a causa dell'esaurirsi
della lotta politica a proselitismo vicendevole. Quindi la lotta politica
consisterebbe in reiterati tentativi di convincere il prossimo della propria
verità, e il controllo democratico sarebbe, come detto, la pura
conta aritmetica dei vari gruppi possessori delle varie verità.
In tutto questo c'è ben poca nobiltà e molto fanatismo.
Di fatto esiste una profonda
contraddizione tra società ideologica, cioè una società
in cui i partiti politici rappresentano una precisa ideologia, e una società
metodologica, cioè una società in cui i partiti politici
hanno compreso la futilità di voler far rientrare il mondo nella
propria ideologia, e accettano il ruolo di coordinatori delle volontà
degli individui, ci si augura liberati dai pregiudizi. E malgrado quanto
dice Woody Allen, che Dio è morto, le ideologie sono morte, e anche
noi non ci sentiamo molto bene, la concezione che è impossibile
far politica senza una ideologia -quanto meno di riferimento- è
dura a morire. Se si accettasse una semplice modifica del punto di vista,
cioè l'idea che le elezioni sono il momento del controllo democratico
sull'attività svolta, e non la semplice conta dei membri delle varie
sette ideologiche, questo aiuterebbe tutti a comprendere che cosa è
la partecipazione alla vita politica. Anche se la concezione delle elezioni
come momento di controllo del passato più che approvazione del futuro
è perfettamente compatibile con la società ideologica -un
parlamento ideologizzato può essere giudicato per il grado di realizzazione
del programma ideologico- Il semplice sottoporre a controllo dei fatti
le ideologie è in realtà il fondamento di una possibile razionalità
politica. A questo punto le ideologie, se sottoposte a controllo e abbandonata
se non funzionano, diventano semplicemente delle idee, legittime come tutte
le idee e tutte egualmente degne di essere considerate. Insomma il concepire
le elezioni come momento di controllo di ciò che è stato
fatto è una cosa profondamente rivoluzionaria nei confronti delle
società ideologizzate.
Ora la forma migliore di controllo
per una società che, come quella italiana degli ultimi cinquant'anni,
si è incancrenita in una vita politica di guerra per bande, nessuna
delle quali comunque responsabilizzabile per ciò che è stato
fatto, è, molto probabilmente, del tipo che consenta una scelta
tra due sole alternative: il sistema elettorale basato sull'uninominale
maggioritario consentirebbe e costringerebbe al tempo stesso tutte le forze
politiche a caratterizzarsi per i propri programmi, eliminerebbe i disastri
della partitocrazia, attenuerebbe entro limiti comprensibili la corruzione
amministrativa. Sembrerebbe una questione secondaria concepire il sistema
elettorale uninominale come estrinsecazione del controllo piuttosto che
come scelta di chi deve governare. Ma se si abbandona la caratterizzazione
ideologica dei candidati, in base a che cosa si sceglie chi deve governare?
Se rinunciamo all'assurda idea che sono 'i più bravi' che devono
governare, perché non sappiamo come definire la bravura prima di
averla messa alla prova, quale altro criterio resta se non il giudizio
alla prova dei fatti?
Sistema uninominale come miglior
sistema di controllo nella situazione data, e non come miglior sistema
di scelta di chi deve governare? Se non importa infatti come si eleggono
le persone, ma come le si possono controllare una volta elette, il sistema
maggioritario uninominale consente sicuramente di non votare la specifica
persona che non si intende rieleggere, col che si otterrà di mandarla
a spasso molto più probabilmente che non con il sistema proporzionale.
In questo contesto del controllo
democratico esercitato attraverso il sistema elettivo uninominale, permane
una questione irrisolta e trascurata: chi decide in merito ai candidati
alle elezioni? Si dice" è il partito che decide chi sono i candidati,
è il partito che decide chi è più meritevole di essere
candidato, ovvero chi ha più probabilità di essere eletto".
Ammettiamo che possa essere così. Quali saranno allora le modalità,
i criteri con cui il partito decide chi è più meritevole
di essere candidato? Prescindendo da problematiche platoniche, possono
tali modalità astrarsi dalla logica della democrazia, che si esprime
comunque con una votazione, aspetto formale e sostanziale della vita democratica?
Oppure si ritiene che i dirigenti del partito, che sono a loro volta eletti,
abbiano la prerogativa di decidere loro in merito ai candidati? Uno degli
aspetti più deteriori della partitocrazia è la formazione
delle liste elettorali, scelta insindacabile, anche perché non esiste
nessuna legge che ne preveda le modalità, e totalmente abbandonata
all'arbitrio delle segreterie dei partiti. Basterebbe questa osservazione,
questa prova dei fatti, per suggerire di abbandonare tale modalità
di formazione delle liste. Ma ci sono considerazioni di filosofia politica
e della democrazia, oltreché di filosofia comportamentale umana,
che evidenziano come non esistano criteri neppure in prima approssimazione
certi che permettano di sapere in anticipo chi sarà un buon politico.
Non esistono criteri di scelta per valutare chi sarà un buon medico,
chi sarà un buon avvocato, chi avrà successo come attrice,
chi avrà successo come scienziata, chi come pornodiva. Spesso la
sorte, intesa come fortuna, gioca un ruolo fondamentale per il successo,
inteso come riconoscimento collettivo del raggiungimento di obbiettivi
prefissati. Se quindi una carriera, una professione, una attività
lavorativa deve essere scelta, è preferibile che tutti abbiano uguali
opportunità. Nelle attività prevalentemente sottoposte a
giudizio estetico invece giocano predisposizioni individuali piuttosto
forti: un pittore, un musicista, una poetessa, anche se egualmente vittime
della sorte, hanno tuttavia delle capacità oggettivamente riconoscibili.
Allora l'uomo politico è uno scienziato sociale o un artista?
Ci saranno anche le solite
eccezioni, comunque soggette alle alterne vicende della fortuna, ma ordinariamente
parlando è meglio che sia uno scienziato sociale: tutti possono
divenire scienziati sociali, pochi invece hanno il dono dell'orecchio musicale,
del senso dei colori e dei disegni, dei suoni e delle luci. Il principio
del governo democratico non è la virtù, come invece sosteneva
Robespierre, ma la possibilità di controllare le persone che hanno
il potere. E chi mai controllerebbe un artista nella sua arte? Senza contare
che nulla vieta a un artista di presentarsi per essere nominato candidato
in un dato partito: il fatto che venga nominato in una elezione formale
per essere candidato alle elezioni politiche è il presupposto fondamentale
per mantenere gli eletti sotto il controllo degli elettori e al tempo stesso
indipendenti da strutture di potere partitiche che fatalmente tendono a
formare un diaframma tra eletto e elettori, una organizzazione gerarchizzata
che per prima cosa tende a mantenere se stessa.
La concezione che non è
necessario avere una ideologia per fare attività politica è
spesso definita 'qualunquismo' .Il risultato della politica fatta in base
al concetto che la realtà deve inquadrarsi nei programmi ideologici,
considerando gli avvenimenti recenti e i più lontani nel tempo,
può essere serenamente definita 'imbecillismo' .E' proprio degli
imbecilli infatti non avvedersi dei propri errori, non imparare nulla da
essi. Tuttavia anche programmi di realizzazione della democrazia, per es.
il programma di uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge e altrove,
possono essere perseguiti in modo imbecillista, cioè commettendo
errori e insistendo sugli stessi. La politica è anche questo: sottoporre
a esame critico non solo se stessi e le proprie idee, ma anche i compagni
di strada che si dirigono verso i nostri stessi obbiettivi. Il perseguire
uno stesso obbiettivo non protegge nessuno dal perseguirlo secondo una
logica imbecillista. Sistemi elettorali diversi possono essere più
o meno idonei a risolvere il problema del controllo democratico e dell'equilibrio
tra i poteri a seconda della particolare situazione, storica, politica
o sociale, qualunque cosa si intenda con queste espressioni.
Esiste poi la questione della
legittimità della lotta politica, della necessità di garantire
a tutti libertà di espressione in una logica di competizione delle
idee e delle proposte politiche. Esiste soprattutto il problema della concezione
dello stato prima ancora che della sua funzione. In tutte queste problematiche
un atteggiamento pragmatico, razionale, pronto a riconoscere i propri errori,
sembra comunque preferibile a una impostazione pregiudiziale, basata su
certezze assolute. Spesso gli imbecillisti sostengono che la gente ha bisogno
di certezze, ma non esistono risposte certe ai problemi sociali, si possono
solo fare delle ipotesi, e poi verificarle nella realtà. Purtroppo
costoro quando non riescono a trovare delle certezze, sembrano non esitare
a inventarsele, e da queste invenzioni nascono tutta una serie di problemi.
Si confonde tragicamente l'ideologia colla metodologia, e così si
finisce per non capire che le uniche certezze possibili sono appunto metodologiche,
frutto di un accordo sulle regole, come per esempio la certezza del diritto.
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