Credo di avere chiarito che,
o perché, le scelte in politica sono di carattere etico, e non estetico.
Ovvero, coloro che pensano, e non sono pochi, che le scelte politiche siano
di carattere estetico sono appunto di solito legati alla concezione che
il politico ha delle doti naturali ereditarie, come un musicista o un artista
in genere, e finiscono per l'accettare una teoria dell'élite, espressione
della classe dirigente o altro, e fatalmente per trovarsi ideologicamente
impegnati contro la democrazia e a favore del governo dei migliori. Pur
tuttavia anche la concezione che la politica sia fare delle scelte etiche
non risolve la questione della doppia morale, cioè del fatto che
scelte etiche differenti appaiono coesistere, all'interno di una società
e tra società differenti.
Applicare a società
diverse dalla nostra principi etici differenti dai nostri, suggerire quindi
che esista una doppia morale, una per noi e un'altra per gli altri, è
un concetto che è in contrasto col principio dell'uguaglianza di
tutti gli uomini davanti alla legge e altrove. Ma da un altro punto di
vista l'imporre i nostri principi etici a società diverse dalla
nostra è una forma di imperialismo etico che è stato la giustificazione
addotta dai conquistadores, dai colonialisti in genere, per imporre colle
armi il proprio dominio militare, economico e culturale.
Come risolvere questa contraddizione?
L'etica internazionale, la
società delle nazioni e il governo mondiale proposto per primo da
Kant, sembra essere stata ed essere tuttora legata alla geografia, per
quanto spiacevole questo sia. Se un popolo a noi vicino si abbandona ad
atti che noi consideriamo orrendi e barbarici ci sentiamo più in
dovere di fare qualcosa. Ma se gli stessi atti vengono compiuti nella lontana
Africa allora non ci sentiamo in diritto di fare alcunché. Ovvero
nel popolo a noi geograficamente vicino sentiamo di dover applicare il
principio della non ingerenza negli affari interni di uno stato estero,
mentre nella lontana Africa mandiamo le nostre truppe a imporre colla forza
i nostri principi etici colla giustificazione che essi si applicano all'umanità
intera. Anche la storia di un paese ne determina la sua appartenenza a
un mondo a parte caratterizzato dal rispetto di certi principi etici: così
in Africa le stragi intertribali ci lasciano indifferenti, ma se i bianchi
afrikaneer commettono dei soprusi rispetto ai neri del sud-Africa allora
siamo colmi di sdegno, e lo stesso si può dire del problema ebraico-palestinese.
Ma risolvere la questione di un diritto internazionale, un diritto delle
genti, con un occhio all'atlante e un'altro ai libri di storia, ancorché
praticamente molto corrente, non può essere considerato un modo
giusto di risolvere la contraddizione di cui sopra. Esiste quindi una questione
aperta nel campo dei diritti della persona e nel campo del diritto dei
popoli, e la soluzione non può essere che in un atto di fiducia
nella razionalità umana, supporre cioè che col progredire
dell'educazione e degli scambi culturali si diffonda, nel rispetto delle
diversità, l'etica che al momento è la nostra etica, l'etica
dei paesi sviluppati. Dobbiamo essere pronti a modificare i nostri principi
etici come abbiamo fatto per il passato, dobbiamo considerare i nostri
principi etici come il risultato di un accordo e non come la risultante
obbligata della nostra religione, sia essa tramandata o rivelata. Questa
appare una prospettiva ragionevole, ma nel frattempo che fare? E' giusto
limitarsi a una condanna verbale senza poi dare un seguito alle parole
con dei fatti? E di che fatti si può parlare, avendo finalmente
rinunciato all'uso della forza per imporre i propri valori culturali e
tradizionali spacciati per principi etici?
Bisogna sottolineare la enorme
differenza che corre tra il considerare i nostri principi etici come il
risultato ineluttabile della nostra storia, e il considerarli un semplice
accordo sociale nel nome della convivenza, accordo rinegoziabile, cambiabile,
mai assoluto. Va continuamente ribadito il carattere artificiale di questo
accordo sociale, nel senso del suo completo essere diverso da ciò
che accade in natura e nella natura delle cose che si svolgono nelle società
tribali. Se consideriamo i nostri principi etici come qualche cosa di immodificabile
perché naturalmente giusto, fatalmente sarà impossibile evitare
lo scontro con chi si comporta secondo dei principi differenti ma egualmente
convinto di essere naturalmente nel giusto, sarà impossibile non
ridurre la questione di una etica sovrannazionale appunto a un imperialismo
etico, necessariamente vincente e dominante in conseguenza della vittoria
dell'impero più forte.
Che relazione tra l'imperialismo
etico e la corruzione politica? Quando i principi etici vengono usati come
giustificazione dell'azione politica, per quanto superficialmente giusto
ciò possa apparire, si opera in modo analogo a un colonizzatore
tra i cannibali: sinceramente disgustato dall'evidente inciviltà
del cannibalismo il colonialista cercherà di dissuadere, colle buone
o colle cattive, i selvaggi dal continuare a perpetrare simile delitto.
Si renderà conto di fare una azione diretta contro la cultura locale,
ma si sentirà giustificato nel farlo dalla convinzione di essere
portatore di valori morali più elevati, di una etica 'superiore'
.I suoi fini sono quelli di elevare i selvaggi a valori umani superiori.
Il politico delinquente agisce in modo sostanzialmente analogo: portatore
di un progetto sociale volto ad un avanzamento generale della società,
o di un progetto di conservazione degli aspetti migliori della società
in cui vive, egli sentirà su di se la responsabilità di agire
per il bene collettivo. Questo supremo ideale è considerato più
importante della legge scritta ove tale legge scritta sia in contraddizione
con il suo ideale!
Così si evidenzia una
drammatica contraddizione: i fini etici della politica finiscono a scontrarsi
con se stessi; gli stessi ideali di libertà ed uguaglianza sono
portati avanti da individui che si ritengono superiori, cioè diseguali,
rispetto alla massa dei cittadini, e la libertà, come fu teorizzato
da Robespierre, deve essere imposta. L'analogia colla mentalità
colonialista e razzista è evidente. In altre parole la teoria della
classe dirigente, l'ipotesi che sono i migliori che devono governare, la
pseudo-osservazione di uno pseudo dato storico per cui in una data società
si crea sempre una élite che comprende non più del 10% dei
suoi membri, sono autogiustificazioni intellettuali per imporre i propri
valori etici nella convinzione che essi siano i più elevati, i più
nobili, i più oggettivamente umani e umanitari. Ciò può
indifferentemente essere sostenuto in buona o in mala fede, per esempio
i Gesuiti e altri frati che accompagnavano e guidavano la conquista del
nuovo mondo, potevano essere realmente in buona fede convinti di operare
per salvare le anime di quei poveri selvaggi che andavano aiutando a massacrare,
oppure potevano essere in assoluta malafede e, come Paolo e Giuseppe Flavio,
usare della fede per ingannare se stessi e i selvaggi, e al tempo stesso
fare carriera. Il risultato per i selvaggi massacrati fu esattamente lo
stesso. Lo stesso dica si per i colonialisti: ci sono stati autentici promotori
di benessere e sviluppo sociale tra i colonialisti, insieme a schiere di
sfruttatori. Il problema è che dicevano le stesse cose, facevano
le stesse cose, o quantomeno si distinguevano scarsamente dagli altri perfino
nei risultati. Per questo il neocolonialismo dei nipoti dei selvaggi, educati
nelle nostre scuole e assimilati nella nostra concezione di civiltà,
sta procurando gli stessi risultati.
Il fatto è che non
si possono imporre le nostre idee agli altri, non si possono ingannare
gli altri, adducendo a giustificazione il bene altrui. E' una contraddizione
logica, e probabilmente anche biologica, ed è una nefandezza antiumanitaria.
L'opposizione di chi segue
la prassi elitaria è che operando in questo modo si accetta la situazione
esistente, l'ingiustizia sociale esistente, le storture sociali esistenti
qualunque cosa si intenda per 'storture sociali' .La necessità di
fare qualcosa sarebbe quindi evidente. Ma questa è una opposizione
fasulla perché sottintende che l'unica cosa possibile è il
modus operandi dei sostenitori della teoria dell'élite. In una situazione
in cui siamo quasi tutti familiari, l'educazione dei figli, l'alternativa
non è certo tra educazione autoritaria e impositiva o non educazione.
L'alternativa è tra educazione autoritaria o educazione basata sull'esempio.
Perfino nelle istituzioni scolastiche più conservatrici si è
a conoscenza di una alternativa all'insegnamento basato sull'autorità,
che è quello dell'apprendimento attivo. La scienza ha cominciato
a progredire quando il concetto di autorità scientifica è
stato abbandonato, quando è stato abbandonato il rispetto sacrale
per l'autorità degli antichi e si è passati alla critica
delle loro concezioni. Insomma la storia dell'umanità è un
continuo esempio di come qualunque progresso sia stato fatto non grazie
all'élite, ma nonostante la presenza di una élite dominante.
Ma, si dice, anche in questo caso il progresso è stato compiuto
principalmente per opera di individui eccezionali. E questo cosa c'entra?
Il fatto che alcuni individui eccezionali hanno favorito il progresso in
alcuni campi non può essere certo una giustificazione per alcuni
malfattori di auto proclamarsi individui di eccezione e pretendere che
il resto della popolazione si adegui pena la mancanza di progresso o peggio.
Sono i risultati ottenuti da alcuni individui che ne fanno degli individui
eccezionali. L'idea che individui eccezionali producano cose eccezionali
è appunto il sustrato psicologico ed etico della concezione elitaria,
quando è il contrario che si verifica, cioè risultati eccezionali
fanno giudicare gli individui che li hanno provocati individui eccezionali.
Insomma sono i risultati, il riconoscimento del valore dei risultati da
parte della collettività, che porta al riconoscimento dell'eccezionalità.
Comunque la si rigiri non si sfugge alla logica del riconoscimento dell'autorità,
scientifica o altro, basata sulla competenza e quindi sancita dalla stragrande
maggioranza delle persone. Einstein è un genio non perché
essendo un genio ha prodotto quello che ha prodotto, ma perché avendo
prodotto quello che ha prodotto egli è riconosciuto unanimemente
come un genio. Non mi pare che egli si sia mai sognato di informare il
grosso pubblico che ritenendosi egli un genio fin da giovane si dovesse
prestargli attenzione perché avrebbe prodotto cose geniali. La commedia
e la tragedia dei sostenitori della concezione elitaria è che loro
sanno già in anticipo di essere degli individui eccezionali, e pertanto
tendono a sfuggire a un rigoroso controllo, esattamente come Freud che
essendo convinto della assoluta evidenza scientifica della sua dottrina
riteneva inutile verifiche sperimentali alla stessa.
Questa intima convinzione,
in cui la buona fede assume una valenza estremamente peggiorativa perché
toglie quel sacrosanto dubbio della ragionevolezza, è una delle
basi della attività sociale del politico delinquente. L'intima convinzione
è rafforzata dall'appartenenza a una comunanza di individui legati
allo stesso progetto sociale: si crea all'interno di questa consorteria
uno pseudo riconoscimento collettivo analogo a quello che si crea tra i
partecipanti alle sedute spiritiche, una distorsione della realtà
che, essendo apparentemente collettiva, acquista un carattere pseudo-oggettivo.
Se capisco bene la sociobiologia
fa perno su due punti, uno è che in una popolazione, una società,
umana o delle api, subisce nella sua identità culturale (conoscitiva)
una pressione selettiva da parte dell'ambiente, e che tale pressione selettiva
determina delle modificazioni del comportamento che sono trasmesse alle
generazioni successive, bypassando così la non trasmissibilità
di modificazioni fenotipiche attraverso il genoma, che non è modificato
dall'ambiente. Questa è una rivalutazione positiva delle dottrine
comportamentistiche dell'inizio del secolo. L'altro punto è la teoria
del gene egoista, cioè la teoria che non l'individuo ma i suoi geni
sono in lotta per la sopravvivenza nella competizione sessuale e nell'esercizio
del potere. Una società, una popolazione, non sarebbero quindi solo
un tutto unitario che si identifica nella teoria della specie in lotta
per la sopravvivenza attraverso la selezione individuale, ma un complesso
e intricato mixing dove l'ambiente, il sesso e la brama di potere si intrecciano
con la vita dei vari individui, il caso e la necessità influenzando
in egual misura gli avvenimenti. Levi-Strauss ha osservato che la sociobiologia,
e io aggiungo la psicoanalisi, è in grado di far rientrare ogni
cosa e il suo contrario nella teoria. Il caso e la necessità appunto,
dove il caso è l'ambiente (e la radiazione cosmica che modificherebbe
i geni) e la necessità i geni.
Cosa centra tutto questo coll'etica
personale e sociale, con le ragioni della politica? Assolutamente niente.
La biologia, più o meno sociale, più o meno genetica, non
conosce una dimensione etica. Le idee di Lorenz che certe idee morali siano
la risultante di comportamenti innati sviluppatesi colla specie e in difesa
della specie, sono sostenute da quegli etologisti che si prestano a ricercare
nella biologia le giustificazioni etiche del totalitarismo. I rapporti
tra etica e società, e più società, sono un problema
squisitamente politico, e la biologia ha ben poco da suggerirci al riguardo.
Che il leader di un partito politico possa essere assimilato a un animale
che guida il branco, che ci siano delle ragioni genetiche perché
proprio quell'animale guidi il branco, sono sciocchezze da campagna elettorale
per gli sprovveduti. E se la teoria elitaria si fonda su basi biologiche
oltre che empiriche, ciò non la rende incriticabile, inquestionabile,
imbattibile. La astrae semplicemente dal controllo sociale e democratico,
e perfino da quello scientifico. O meglio è un tentativo, spesso
riuscito, di sottrarre la classe dirigente al controllo della società
di cui pure è espressione.
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