Possiamo cercare di riassumere
quanto abbiamo esposto nel cercare di individuare le ragioni di un comportamento
criminale troppo diffuso per non avere che delle spiegazioni basate sulla
fallibilità della natura umana.
In primo luogo abbiamo osservato
un carattere comune: il porre l'etica del comportamento in secondo piano
rispetto a valori più o meno sociali ritenuti più importanti,
il ritenere che gli obbiettivi della propria azione politica trascendano
considerazioni etiche.
In secondo luogo il credo
spesso fanatico, talora ragionato ma sempre non razionale, nella validità
di una analisi precostituita della realtà politica e sociale, e
al tempo stesso il ritenere indispensabile il riconoscersi in tale analisi
precostituita, cioè in una ideologia per potersi occupare di politica.
In terzo luogo una teoria
elitaria della società, e ovviamente il ritenersi parte di una élite.
Ognuno di questi elementi
è in sinergia con gli altri due: elitismo, ideologismo, relativismo
etico (si intenda: disconoscere il primato della legge etica dentro di
noi in relazione ai rapporti umani) , si incatenano l'un l'altro in un
mutuo rinforzarsi. Soprattutto è la tradizione culturale, che subisca
o meno pressioni dall'ambiente, a far sentire 'a posto' il politico delinquente.
Per tradizione culturale si evidenzia, per esempio, una religione come
il cristianesimo Paolino o il Calvinismo, con il loro ossequio al potere
costituito o al successo sociale ritenuto segno divino; oppure la prassi
della classe politica dominante e la prassi giurisprudenziale che hanno
formato l'ambiente culturale in cui si è sviluppata la corruzione
generalizzata finalizzata al finanziamento illegale ai partiti nell'Italia
del secondo dopoguerra.
Ma c'è anche un particolare
meccanismo formale della organizzazione politica in senso lato che rinforza
le tre componenti elencate. Un sistema elettorale che premia l'ideologismo
e l'elitismo è ovviamente destinato a rafforzare, come pressione
selettiva ambientale premiante, l'ideologismo e l'elitismo. A sua volta
questa positiva pressione ambientale rinforza il relativismo etico, pone
le problematiche etiche fuori da ciò che è ritenuta la realtà
vera, ridefinisce il bene e il male in accordo con la particolare concezione
ideologica e la generale concezione elitaria del far politica. Un sistema
istituzionale che premi l'elitismo e l'ideologismo è destinato a
rinforzare l'elitismo e l'ideologismo, e questo rinforzo determina in larga
parte un certo immobilismo istituzionale: le istituzioni cessano di adeguarsi
agli eventuali mutamenti sociali e culturali, e finiscono per ostacolarli.
La ragione è ovvia: le istituzioni sono le garanti di una vita politica
per la quale i partiti politici sono le arene di formazione delle ideologie,
la politica è scontro di ideologie, gli attori della politica sono
i migliori, che naturalmente sono anche i dirigenti dei vari partiti politici.
Se le istituzioni sono la garanzia di questa concezione della politica,
è chiaro che chi ha questa concezione della politica difenderà
quel tipo particolare di istituzioni che sono consustanziali a tale concezione.
Siamo quindi davanti a un sistema autorigenerante.
I risultati non si limitano
a creare una classe politica maggioritariamente criminale: se la società
funzionasse ci sarebbe da discutere se un astratto primato dell'etica sia
da ritenersi ragione sufficiente per modificare l'intera organizzazione
della vita politica.
Il fatto è che una
società politicamente gestita nel modo suddetto non funziona, non
ha funzionato, e probabilmente non può funzionare. La società
deve poter modificare le proprie istituzioni quando esse sono di ostacolo
alle modificazioni sociali che si sono sviluppate. La società deve
poter abbandonare un progetto sociale se questo non funziona.
La società è
la risultante di un accordo tra individui sui valori di base, nessuno può
essere obbligato a rispettare un accordo che non ha mai sottoscritto. Se
la società non vuole regolare i rapporti tra i suoi membri in base
alla legge del più forte, non è ammissibile che tali rapporti
vengano regolati in base alla legge del più intelligente: i valori
base di cui sopra sono valori etici, e all'etica politica va dato quel
primato che ci distingue dai primati e dai loro immediati successori.
Se ciò è giudicato
vuoto e astratto moralismo, che tanto il mondo va in un altro modo, se
si pensa che i valori etici non sono commestibili e che invece bisogna
creare le condizioni perché ci sia giustizia sociale, se si pensa
che l'etica del non fare agli altri ciò che non vogliamo sia fatto
a noi non sia sufficiente e che il solidarismo sia essenziale al punto
da doverlo rendere obbligatorio, la risultante sarà una dubbia prospettiva
sociale e una certa delinquenzialità politica.
Relativismo etico, ideologismo,
elitismo, come è noto, hanno prodotto felici e giuste società,
ma solo nelle menti di quegli imbecilli che li hanno propagandati. Nella
realtà storica la politica di una élite ideologizzata ha
sempre prodotto infelicità, ingiustizia, e miseria materiale.
Ma ci sono altri aspetti costitutivi
del politico delinquente, aspetti inerenti la teoria dell'élite
e la scelta ideologica, in cui la colpa del comportamento criminale sembra
essere a carico degli elettori piuttosto che degli eletti, delle masse
piuttosto che dei loro rappresentanti. Vincenzo Cuoco nella sua storia
della fallita rivoluzione napoletana osserva come il popolo si muova solamente
per bisogno, e come i Giacobini napoletani non abbiano tenuto conto di
questo semplice fatto. Ora non è da credere che la realtà
sociale del Regno delle due Sicilie verso la fine del 1700 fosse meglio
della realtà sociale della Francia, ma sembra che i bisogni del
popolo meridionale non coincidessero con quello che i Giacobini pensavano
che tali bisogni fossero, o forse non si sono spiegati bene, o forse hanno
fatto proclami scritti a una moltitudine di analfabeti e se ci fosse stata
la radio le cose sarebbero andate diversamente. Anche Pisacane è
incorso nello stesso problema, e forse per gli stessi motivi, e la sua
vicenda è tragicamente simile a quella di Chè Guevara. Se
d'altronde Pisacane e Chè Guevara avessero tentato di seguire una
via democratica alla rivoluzione, si sarebbero scontrati con l'indifferenza
e l'incomprensione in maniera meno acuta, ma non certo meno forte. Il fatto
è che molti elettori vivono appunto la vita politica come una lunga
serie di riunioni condominiali, e cercano di evitare tali riunioni come
la peste. Al tempo stesso si incazzano come delle iene quando il condominio
decide, in loro assenza, che le tende sui balconi devono essere verdi anziché
rosa, o che il cancello deve stare aperto invece che chiuso, o quant'altro.
Sappiamo ancora poco del comportamento
sociale dei membri di una società moderna, anzi a dire il vero non
sappiamo neppure se esista un modulo comportamentale che possa definirsi
comportamento sociale. Molto di quanto sappiamo sono informazioni di seconda
mano del marketing, del franchising, della pubblicità anima del
commercio. Taluni credono che la televisione sia vitale per la pubblicità,
e la pubblicità vitale per il commercio (e per la televisione) ,
ma la televisione, per esempio, comincia a non fare più presa su
generazioni che sono nate con essa. Forse il successo iniziale della televisione
era dovuto alla sua eccezionale novità. Come i nostri cugini primati
noi ci appassioniamo della novità, ma poi finiamo per stancarcene.
Il concetto stesso di comportamento sociale è indispensabile per
tutti coloro che vendono qualcosa: scoprire cosa determina l'acquisto di
un prodotto è talmente importante da far tralasciare la possibilità
che quella stessa cosa non esista.
Pare che l'origine della vita
sociale non strettamente tribale sia da far risalire a certi luoghi geografici
dove avveniva lo scambio di manufatti. L'origine della moneta come sostituto
del valore di scambio non pare essere stata la risultante di un comportamento
sociale predeterminato, ma una semplice operazione logica. Se così
fosse, potremmo pensare che nulla in realtà determina l'acquisto
di un prodotto, che tutta la teoretica del marketing è pura illusione.
L'etologia umana non può neppure produrre una ipotesi di vantaggio
per la specie dal carattere comportamento sociale. Forse l'impostazione
sociobiologica potrebbe ipotizzare che il fatto culturale della nascita
della moneta come merce di scambio abbia rappresentato un notevole vantaggio
nei confronti della pressione selettiva. Si tratterebbe quindi di un meccanismo
appreso e trasmesso attraverso l'ereditarietà culturale. Di un meccanismo
casualmente appreso, rinforzato dal vantaggio selettivo, e sfociato nei
nostri tempi nel consumismo di massa. Ma un consumismo generalizzato quale
mai vantaggio selettivo potrebbe dare? Ovvero se si raggiungesse un benessere
sociale generalizzato il consumismo non cesserebbe di avere qualsivoglia
vantaggio selettivo, con buona pace degli ideologi del marketing? Il fatto
è che gli ideologi del marketing sono costretti a presentare il
concetto di comportamento sociale come un dogma di fede. Ora può
darsi benissimo che esista un modulo comportamentale sociale, anzi molto
lo lascia credere, ad eccezione della teoretica del marketing. Eppure coloro
che si occupano e preoccupano di fare politica e di propagandare, fare
proselitismo, chiedere e organizzare il consenso, credono seriamente che
le tecniche del marketing siano il paradigma da seguire.
Quali sono i motivi che spingono
un individuo a occuparsi di politica? Nella nostra società ciascuno
sembra volere essere sempre meno suddito, sembra voler divenire sempre
di più un anarchico. Le tecniche del marketing si sono dimostrate
fallimentari, a lungo andare, nel fare proselitismo e organizzare il consenso.
Questa affermazione potrà apparire smentita sul breve periodo perché,
occasionalmente, una specifica tecnica di marketing sembrerà avere
un grande successo. Ma per quella specifica tecnica di marketing che ha
avuto successo, altre ce ne saranno che successo non avranno avuto. E la
stessa tecnica quasi mai riesce a stabilirsi nel tempo, ad avere cronicamente
successo. La tanto declamata tecnica della vendita porta a porta può
essere concepita come la dichiarazione di fallimento di ogni altra tecnica
di marketing, è infatti l'unica modalità che rimanga dopo
avere provato, e fallito, tutte le altre. Non è una questione di
marketing, è una questione di logica con un pizzico di disperazione.
Se così è, ed è molto possibile che così sia,
non si può pensare più o meno lo stesso del proselitismo
porta a porta? Se i testimoni di Jeova, che praticano il proselitismo porta
a porta, dovessero giudicare dei risultati della loro tecnica alla luce
delle moderne teorie di marketing, credo che probabilmente cesserebbero
il loro incessante bussare alle porte. Ma per loro una anima convertita
vale tutte le fatiche del mondo, e questo non vale per un venditore ambulante.
Pur tuttavia si teorizza che la televisione sia come la porta di una casa
con milioni di abitanti; ma è esattamente in questa similitudine,
indubbiamente vera, che si evince il fallimento della teoretica del marketing.
Ovvero il marketing, e la sua teoretica, si riducono al semplice estro
individuale del venditore e alla presentazione del messaggio al maggior
numero di persone possibili. Il che, indipendentemente dal messaggio, è
ciò che si fa nel proselitismo politico e nella creazione del consenso.
In questi termini la presentazione
di un messaggio ideologico sembra di comprovata maggior facilità
rispetto alla presentazione di un messaggio logico. E un messaggio elitario,
privilegiato, talora e paradossalmente sembra avere più successo
nel grosso pubblico rispetto a un messaggio dichiaratamente popolare; l'apparente
illogicità di questo fatto si spiega col rilevare che si tratta
sempre di una turlupinatura. Onde per cui un messaggio ideologico ed elitario
si trova spesso nella necessità di mascherare più che evidenziare
il suo carattere elitario.
Dicendo queste cose ho naturalmente
in mente Paolo di Tarso che, senza mass media, senza aerei, ne treni, ne
autobus, girando di porta in porta, ha messo in piedi una organizzazione
che, a due mila anni di distanza, ne conserva ancora intatto lo spirito
e la natura. Se si dice che le idee non sono come le merci, che la politica
non è un mercato, si dice una cosa giusta e al tempo stesso si nega
una realtà che è sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, per
parafrasare Paolo, bisogna crederci perché è assurdo, come
spesso appare assurda la fede nella ragione davanti alla irragionevolezza
del mondo.
E allora che fare? Quando
una idea giusta, ma chi dice mai che l'idea è giusta, soccombe a
una idea ingiusta solo perché quest'ultima ha scelto una tecnica
di marketing favorevole, ha avuto magari fraudolentemente o colla forza
del denaro accesso ai mass media, negato all'altra idea, quando si crede
che le cose possano andare così a causa dell'irragionevolezza del
mondo, non è tutto questo una sorta di alibi, una sorta di rinuncia,
ingenua se la si confronta alla pseudo rinuncia della Grande Chiesa che,
affermando che il suo regno non era di questo mondo, se ne è appropriata
in gran parte?
Insomma è possibile
che non sia possibile organizzare le idee invece di organizzare il consenso,
che non sia possibile fare discussioni logiche di porta in porta invece
che proselitismo? O non è forse vero che il contrario è più
facile solo perché è inganno, aria fritta, turlupinatura,
o nel migliore dei casi fanatico messaggio rivolto al lato peggiore e più
irrazionale della natura umana?
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