Non sono solo le ideologie
a essere morte, si sta constatando l'avvenuto decesso anche dei programmi
politici. Si sta diffondendo la concezione che non c'è altro sistema
in politica che procedere per tentativi ed errori. Diventa quindi vitale
poter scegliere dei deputati, i governanti, non tanto sulla base dei programmi
quanto sulla maggiore o minore certezza che essi realizzeranno il loro
programma, qualunque esso sia. Si vuole con ciò partecipare al tentativo
che tale programma rappresenta, e secondarIo o bocciarlo, nella successiva
tornata elettorale, a seconda che sembri funzionare o meno. E' in altre
parole più importante controllare un programma, la sua esecuzione,
i suoi risultati, il poterlo interrompere e mandare a spasso i suoi propugnatori
se tale programma non funzioni, indipendentemente dal tipo di programma
proposto. Questo è un modo un po' brutale di mettere le cose, ma
equivale a dire che la politica si avvicina ai metodi della scienza, a
divenire una scienza sociale. Ora i metodi della scienza sono qualche cosa
di indefinibile è hanno in comune sostanzialmente la discussione
critica e ragionata, ma non è per questo che la scienza progredisca
a caso o alla cazzo di cane. C'è uno sviluppo della conoscenza scientifica
che progredisce logicamente da qualche secolo a questa parte, per cui in
molti campi non si parte certamente da zero. Forse in politica si sta partendo
da zero, o forse no, ma non si capisce che cosa del passato rappresenti
un reale avanzamento della conoscenza nel campo delle scienze sociali,
e che cosa sia invece ancora superstizione, sensazione, illusione, eccetera.
In questi termini siamo tutti, o quasi tutti, progressisti. Ma a dire che
cosa divide i progressisti dai conservatori nel senso quanto meno di in
quale direzione andare nello sviluppo delle scienze sociali, questo oggi
appare difficile da sapere. Fondamentalmente due cose, due concezioni,
due modi di vedere, si scontrano: in campo etico la questione se gli interessi
della società possano e in che misura prevalere sugli interessi
individuali; in campo economico la scelta tra una politica neo liberista
e una politica neokeynesiana.
Taluni che si ritengono progressisti,
di matrice marxista, sostengono che gli interessi sociali debbono prevalere
sugli interessi individuali. Quanto sia incongruente con lo svolgimento
della storia degli ultimi due o tremila anni il definire progressismo la
prevalenza degli interessi collettivi rispetto a quelli dell'individuo,
ciò è lasciato all'intelligenza e perspicacia di ognuno.
Molti, la maggioranza credo, ritengono che la storia del progresso sociale
sia sostanzialmente la storia dell'affrancamento dell'individuo dal collettivismo
tribale fondato sulla famiglia patriarcale e sullo spirito di clan. E molti
ritengono che un ulteriore progresso in questo senso debba passare attraverso
un superamento dello spirito etnico e del nazionalismo, cioè di
un ulteriore affrancamento dell'individuo dal collettivismo etnico e nazionalista.
Non si fa certo un favore alla causa del socialismo il confondere le necessità
sociali con le necessità collettive, eppure questa confusione è
stata tranquillamente fatta da Lenin, Stalin, e i loro epigoni, e i risultati
sono sotto gli occhi di tutti.
Parimenti in campo economico
taluni progressisti amano definirsi tali perché fautori di una politica
neokeynesiana, relegando i neoliberisti al ruolo di conservatori. In realtà
in questo secolo, e per la prima volta nella storia dell'umanità,
si verifica che lo scontro tra ricchi e poveri si attenua invece che accentuarsi,
e c'è un diffuso e maggioritario interesse verso una sempre maggiore
diffusione della ricchezza e una sempre maggiore riduzione della povertà.
Conseguentemente esiste un genuino e maggioritario interesse in questa
direzione, ed esiste un genuino e maggioritario senso di incertezza sulla
via da seguire. Se l'esperimento fallimentare dell'Unione
Sovietica fosse stato deciso
dalla maggioranza di quei popoli, non sarebbe durato così a lungo
e soprattutto non avremmo creato un profondo disgusto per qualsiasi forma
di programmazione statale centralizzata. Non sarà possibile presentare
nuovi tentativi di programmazione economica a lungo termine per un bel
po' di tempo a venire, e questo grazie a quegli imbecilli che si sono succeduti
nel politbureau del
PCUS. D'altro canto il fallimento
del comunismo non ha comunque incrementato la fiducia nella gestione dell'economia
da parte di pochi imprenditori molto ricchi e molto potenti. In Italia
costoro poi fanno solamente ridere, ma anche in Inghilterra e negli Stati
Uniti l'economia sembra dipendere molto di più dalle scelte della
massa dei consumatori che dalle decisione di una élite di capitani
d'industria.
Le masse, la massa dei consumatori
e la massa dei lavoratori e la massa dei cittadini, appaiono sostanzialmente
indecise su quale politica economica scegliere. In questi termini la definizione
di progressista e conservatrice per l'una o l'altra tendenza appare arbitraria
prima ancora che elitaria.
Come si traduce tutto ciò
nell'ambito del confronto politico?
Come si è ripetutamente
osservato sembra prevalere una tendenza a sottolineare, a preoccuparsi
maggiormente degli aspetti inerenti il controllo degli uomini politici,
del potere politico in genere, piuttosto che non di scegliere i programmi
che gli uomini politici propongono. Chi sostiene che non si deve più
votare per schieramenti, votando una ideologia e i suoi rappresentanti,
ma che si deve votare e discutere di programmi, appare in ritardo rispetto
all'evoluzione della società nei suoi sentimenti verso la politica.
Così come probabilmente gli stessi, o i loro padri e padrini, erano
in ritardo già pochi anni fa quando insistevano di fatto sul voto
come schieramento ideologico quando la società pretendeva chiaramente
di scegliere tra programmi concreti piuttosto che tra promesse programmatiche
di chiara determinazione ideologica. Senza contare che i programmi, 'chiari
e precisi' , servono oggi appunto a far passare in secondo piano le caratteristiche
del voto come giudizio sulla attività svolta, servono quasi a evitare
tale giudizio.
Ciò che la maggioranza
della società vuole è invece fare i conti con i proponenti
dei programmi della precedente tornata elettorale. Ora questi conti riescono
difficili nei confronti di una istituzione come un partito, che cerca sempre
di scaricare la colpa della mancata realizzazione del programma sugli altri
partiti. E siccome ciò è perlopiù corrispondente al
vero, i cittadini non riescono quasi mai a diciamo così chiamare
in giudizio una entità precisa perché renda ragione delle
sue promesse mancate. Se invece si vota una persona, Carlo Bianchi o Giovanni
Rossi, allora sarà molto più facile chiamare lui in giudizio
per rendere conto del suo operato. Così la permanenza di un sistema
di molteplici partiti e quindi di governi di coalizione permette il gioco
di avere sempre un alibi nei confronti degli elettori per quanto concerne
il mancato rispetto dei programmi. Al contrario il sistema uninominale
maggioritario mette in primo piano la 'accountability', la certezza cioè
che il tale eletto potrà e dovrà essere giudicato dagli elettori.
Può darsi che in un futuro prossimo la scelta fra programmi ridiventi
la caratteristica dominante delle elezioni, ma oggi non è così,
e chi fa politica è costretto a tenerne conto.
Non credo sia utile dirimere
la questione se questo stato di cose sia un progresso del modo di far politica
o no, certamente è una evoluzione alquanto nuova, democratica e
legittima. Certo la responsabilità della situazione è da
dividersi equanimemente tra eletti ed elettori, ma questo non cambia la
realtà. Pertanto c'è stato un progresso, o una nuova evoluzione,
del modo di vedere la politica da parte della stragrande maggioranza dei
cittadini, ed è perfettamente inutile 'arroccarsi su posizioni conservatrici',
'difendere l'indifendibile', insomma chiudere gli occhi o gridare 'non
è giusto' in modo poi alquanto ipocrita. Si è guardato al
bipolarismo come un male sociale, un 'fattore di disgregazione'. Succede
che la maggioranza delle persone non la pensa così; e ha tutte le
ragioni per farlo.
Una ricorrente affermazione
viene ribadita di tanto in tanto: che l'uomo è incapace di un reale
progresso nei rapporti umani e nel campo dell'etica in generale, e che
l'unico progresso è quello tecnologico. Questa visione sostanzialmente
pessimista della natura umana e della sua realtà associativa è
infatti legata a una valutazione altrettanto negativa del progresso tecnologico
proprio in quanto incapace di modificare i rapporti umani e la società
in genere. L'origine di questa filosofia è da ricercarsi nella grande
tradizione spirituale esemplificata dalle problematiche della gnosi e dalla
originale concezione gnostica del significato di termini come ignoranza
e progresso della conoscenza. Come Elaine Pagel fa notare (26)
molti gnostici sostenevano, in contrasto alla dottrina cattolica, che è
l'ignoranza e non il peccato a provocare la sofferenza. In affinità
ai metodi di introspezione di moderne scuole di psicologia, gli gnostici
sostenevano la necessità di conoscere se stessi, attraverso una
ricerca all'interno del proprio animo, per comprendere la natura dell'esistenza
propria e del mondo intero. Per gli gnostici il progresso della conoscenza
è progresso della conoscenza interiore per arrivare a comprendere
la propria natura, e attraverso la comprensione della propria natura arrivare
a comprendere il mondo che ci circonda. Nel mito descritto da Valentino,
un maestro gnostico del II secolo, il mondo nacque dalla sofferenza, la
vita è quindi sofferenza e la causa di questa sofferenza è
l'ignoranza. E' l'ignoranza della ragione dell'esistenza che genera "spavento,
confusione, dubbio e incertezza", e la via da percorrere per arrivare alla
conoscenza di se inizia rinunziando alle illusioni del mondo fisico. Tutte
le correnti di pensiero spiritualiste hanno condiviso e condividono questa
impostazione, e ritengono futile e puerile interessarsi del mondo fisico,
tale interesse allontanerebbe dalla via verso la conoscenza di se e aumenterebbe
quindi i dubbi, le incertezze, l'angoscia dell'esistenza, la forza dell'errore.
Molti oggi seguono Popper
in una strada diametralmente opposta: la ricerca scientifica e il progresso
della conoscenza intesa come conoscenza del mondo fisico che ci circonda
e
di noi come parte di quel mondo. Gli obbiettivi sono gli stessi: capire
chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, ma il progresso tecnologico insegna
che è perlomeno meglio seguire la via di una ricerca oggettiva della
realtà fisica in cui viviamo piuttosto che seguire la via di una
ricerca introspettiva fondata su sensazioni intuitive, su esperienze mistiche
soggettive, se si vogliono ottenere dei tangibili risultati. Così
spiritualismo e materialismo, soggettivismo e oggettivismo, ricerca introspettiva
intuitiva e ricerca scientifica sperimentale, rinuncia e rifiuto delle
illusioni dell'esistenza e critica delle illusioni dell'introspezione,
questi aspetti opposti di due modi di affrontare lo stesso problema si
scontrano e si incontrano intorno al significato stesso del termine progresso.
La Grande Chiesa va in agitazione
e sente odore di demonio quando si trova ad affrontare una questione che
non rientra nel suo corpus dottrinario. Così, dopo avere ostacolato
oltre ogni decenza la ricerca scientifica, oggi pone dei chiari limiti
ad essa: la ricerca nel mondo fisico va bene purché sia ricerca
dell'opera del creatore e quindi ci aiuti a comprendere Dio. Se pone in
dubbio l'esistenza di Dio, e ancor peggio se pone in dubbio l'esistenza
della Chiesa alimentando lo scetticismo verso essenziali questioni dottrinarie,
allora è opera del demonio. Ma a parte queste sciocchezze, molti
auto proclamantisi progressisti sembrano sinceramente ignari delle profonde
radici oscurantiste che alimentano la loro diffidenza nei confronti del
progresso tecnologico e industriale.
Una analoga situazione è
evidenziabile in campo economico: la dottrina marxista vede la storia come
cronaca di una scontro continuo tra forze economiche, padroni e schiavi,
feudatari e servitù della gleba, capitalisti e proletariato, capitale
e lavoro. Molti preferiscono seguire Popper e vedere la storia come evoluzione
della società tribale, sua disgregazione, collasso del collettivismo,
emergergenza del senso di liberazione dell'individuo dalla schiavitù
del collettivismo tribale, insorgenza del razionalismo e dello spirito
critico contro credenze e superstizioni. Ma anche in questo campo non mancano
coloro che sinceramente ritengono legittimo risolvere i problemi dell'esistenza
interpretando la liberazione delle energie individuali come ricorso alla
legge del più forte, ciascuno per se e Dio per gli altri. Così
anche in economia il termine progresso è usato in senso diverso
dagli uni e dagli altri.
Fortunatamente anche i conservatori
sono divisi pressoché allo stesso modo su che cosa si debba conservare,
salvo i privilegiati che sono tutti d'accordo sulla conservazione dello
status quo, e solitamente i detentori di un potere incontrollato che sono
tutti d'accordo sul fatto che debbono conservarselo.
Così esiste una indubbia
componente conservatrice in tutto l'arcipelago ecologista, che ama tuttavia
definirsi progressista e di sinistra, ed esiste una indubbia volontà
conservatrice, componente talora preponderante, nell'ambiente degli imprenditori
neo liberisti, colle sue ricorrenti tendenze alle teorie monopolistiche
e in ultima analisi a rifuggire da quelle leggi di mercato e alla libera
concorrenza che si dice di voler difendere.
Ma come rimane aperta la questione
etica dei rapporti tra necessità individuali e necessità
sociali, è ovvio che rimane aperta anche la questione di che cosa
sia il progresso. Se tutti vogliono chiamarsi progressisti, tanto meglio,
purché sia chiaro che non sembra possibile al momento attuale, e
forse non è neppure augurabile, che si raggiunga un accordo su una
interpretazione univoca del termine.
Il giovane amministratore
starà bene attento a non farsi ingannare da arbitrarie e vuote definizioni
di progressismo e di conservatorismo, non si lascerà impressionare
da critiche puramente nominaliste, cioè pseudocritiche che non entrano
nel merito di un problema ma che si pongono l'obbiettivo di imbrattare
una soluzione dandole un nome offensivo o elogiativo a seconda di chi si
vuole imbrogliare. Si ricorderà poi che nell'Italia del secondo
dopoguerra tutti i partiti hanno respinto con orrore la qualifica di conservatori,
tutti si sono definiti progressisti. Un popolo di navigatori ed eroi, di
poeti e di santi, tutti progressisti e in buonaparte bugiardi.
Il giovane amministratore
terrà quindi presente che esistono delle problematiche aperte: che
cosa è il progresso, in che misura interessi individuali e interessi
sociali debbano intersecarsi, la probabile possibilità di un imperialismo
etico, il possibile contrasto tra etica individuale ed etica sociale, la
coesistenza non solo di culture ma anche di etiche differenti, in che modo
il programma politico di uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge
e altrove possa basarsi su scelte etiche comuni a tutti. Problematiche
aperte in una società aperta. Cercherà di discriminare, il
giovane amministratore, tra chi propone soluzioni preconfezionate e chi
propone tentativi ragionevoli. Cercherà di ricordare che, talora
per amore di perversione, talora in buona fede, gli stessi termini vengono
usati con significato differente e talora diametralmente opposto. Così
i termini di destra e sinistra vanno bene come sinonimi di bianchi e neri,
ma non possono definire, a causa della tradizione e dell'origine del nome,
i buoni e i cattivi, i conservatori dello status quo e gli innovatori progressisti.
Questo non significa certo
ignorare che il male esiste, che i cattivi esistono, che i violenti esistono,
che i sopraffattori esistono, che i conservatori delle ingiustizie -sociali
e non- esistono e vanno combattuti. Così come esistono i fanatici
dell'irrazionalismo religioso, i fanatici dello pseudo razionalismo pseudo
scientifico, e vanno combattuti. Così come esistono i fautori del
ritorno alla società chiusa e totalitaria, fondata sul collettivismo
materiale e spirituale, e vanno combattuti, indipendentemente dal nome
che assumono.
Ed anche sull'origine dei
nomi c'è da ridire: socialismo significava mettere la questione
sociale al centro della vita politica; col tempo è divenuto sinonimo
di soluzioni proposte alla questione sociale. I liberali storicamente erano
coloro che difendevano la libertà contro la tirannide, oggi in Italia
tutti si definiscono liberaI democratici, ma fino a ieri il partito liberale
era il partito di quei pochi conservatori che avevano il coraggio di definirsi
tali. Il progresso del sapere, la filosofia, hanno tanto ancora da esprimere,
indipendentemente dai termini e dal loro significato; così la politica
ha tanto ancora da esprimere, indipendentemente dai termini e dal loro
più o meno pervertito significato.
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